mercoledì 16 aprile 2014

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Si sistemò gli occhiali mentre cercava le parole da rivolgere a Dio. Le scelse con cura ed iniziò a mugolare a bassa voce, in preghiera.
Si sorprese a chiudere gli occhi e ad immaginare le sembianze di quel Dio che stava pregando. Riuscì soltanto a vederlo immenso, gigantesco, sfocato di fronte ai suoi occhi stretti nelle palpebre.
A dire il vero non era mai riuscito a capire cosa potesse essere un Dio: una mano che tutto plasma, tutto cura e tutto distrugge, a seconda della luna.
Si rivolgeva spesso a quel Dio, la sera tardi o al mattino appena svegliato.
Ancora più spesso si era domandato se davvero ci fosse qualcuno ad osservare e giudicare, o se l’Olimpo fosse disabitato e le nuvole soltanto macchie bianche nel cielo.
Non voleva pensarci, faceva di tutto per allontanare quell’idea malsana ed insistente.
Sollevò il bicchiere davanti a sé, fissandolo come se nel liquido che conteneva ci fosse la verità assoluta, pronta da leggere per lui.
Mentre teneva alto il bicchiere lasciò la mente libera, lasciandole ancora spazio per pensare, cercare.
Scavava in continuazione, cercando di andare sempre più in profondità, trovando sempre e solo buio.
Altra domanda che si faceva spesso riguardava proprio quel buio e da dove provenisse: si chiedeva in quale momento della sua vita i suoi sogni fossero diventati oscuri e aveva provato e riprovato a scoprire il momento esatto, a ricordare, fino a giungere alla conclusione, triste e cruda e reale, che il suo cervello fosse sempre stato nero, la sua anima buia.
Non c’erano mai stati sogni quando era stato bambino e ogni colore era sempre stato un po’ sfocato.
La rabbia che lo nutriva e da cui veniva assalito non nasceva se non nel suo cuore, e non moriva mai, al massimo si assopiva.
Sorseggiò avidamente il sangue contenuto nel bicchiere e il liquido vermiglio gli scivolò in gola accarezzandogli il palato e la lingua, e si sentì rinfrancato, si sentì vivo.
Chiuse gli occhi per un istante assaporando l’agrodolce gusto del sangue: in quel sapore forte e delicato allo stesso momento trovò la brillantezza di un cielo blu come non lo aveva mai visto e il rombo della tempesta più grigia e cattiva. Scoprì il sogno più bello e il più terrorizzante degli incubi.
Contemplò di nuovo la felicità e si sentì vivo.
Un attimo dopo si stava domandando se fosse giusto così, sentendosi furioso ed adrenalinico.
Represse quella domanda in un altro sorso e tossì sentendosi la gola infiammata.
Sostenne per qualche secondo il proprio sguardo riflesso nello specchio che aveva di fronte, in quella serata fatta di troppe domande, e scoppiò in un pianto dirotto: pensò ancora a quel Dio freddo, calcolatore e spietato che osservava, derideva e uccideva dall’alto e se ne sentì la brutta copia. Lui che osservava, schifava e massacrava per poter sopravvivere.
Pensò alla sua carne da macello e all’odio che provava per loro, per quella loro incredibile stupidità. Pensò alla sua ascia che così tanto somigliava alla mano impietosa di Dio. La vide spaccare ossa e penetrare carni e recidere muscoli.
Seppe ancora una volta di essere superiore, forse non un dio, ma per quello poteva fare finta.
Assaggiò la carne che aveva nel piatto e ripensò agli occhi stupidi di quello stupido ragazzo che fu.
E si sentì onnipotente. E si sentì vivo.

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